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Infermiera e famiglia contagiati. "In casa una fuga di gas, ma senza olfatto non mi ero accorta"

Con tutti i sintomi del Covid per un mese. Ora la famiglia sta bene ma non sanno quando potranno uscire: "Per i miei figli né test né tampone".

Infermiera e famiglia contagiati. "In casa una fuga di gas, ma senza olfatto non mi ero accorta"
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Giovanna (nome di fantasia per tutelarne l'identità) è un'infermiera comasca che lavora in Svizzera da molti anni. Lei e tutta la sua famiglia sono state investite dal Covid-19 in un modo che mai avrebbe potuto immaginare.

L'infermiera Giovanna e la famiglia contagiati: la fuga di gas

Circa dieci giorni fa nell'appartamento dove vive con il marito e i figli in isolamento da quando ha contratto il coronavirus c'è stata una fuga di gas.

"Stavo cucinando e a un certo punto è arrivato mio marito, spaventato, che ha cominciato a spalancare le finestre - racconta la donna - Il coronavirus mi ha completamente tolto l'olfatto, io non mi ero accorta del forte odore di gas. Abbiamo chiuso il rubinetto centrale e abbiamo chiamato non so quanti idraulici: visto che eravamo una famiglia malata nessuno se la sentiva di intervenire. Lo capisco, chi fosse venuto a casa nostra non solo avrebbe rischiato di contrarre la malattia ma sarebbe dovuto stare in quarantena senza poter lavorare".

La famiglia non sapeva come risolvere la situazione così si è rivolta al Coc del Comune di Como. "Sono stati incredibili, sono riusciti a trovare un idraulico disposto a intervenire a casa nostra con tutti i dispositivi di sicurezza necessari e il supporto dei Vigili del Fuoco. Ci hanno anche offerto pasti caldi nei giorni in cui siamo rimasti senza possibilità di usare il gas" spiega Giovanna.

La malattia: "Noi abbandonati, unico riferimento la nostra dottoressa"

Quell'episodio è stato solo la punta dell'iceberg di due mesi d'inferno per questa famiglia comasca. Un incubo che non è ancora finito. A contrarre per prima il Covid-19 è stata proprio Giovanna.

"Essendo un'infermiera sono stata tra i lavoratori frontalieri che hanno scelto di trovarsi una stanza in Svizzera per evitare le code quotidiane per varcare il confine elvetico due volte al giorno - racconta l'operatrice sanitaria comasca - A marzo in Svizzera era come a febbraio in Italia: diffidenza sui dati che arrivavano da chi era già stato colpito dall'epidemia e poche misure di sicurezza. Alla fine del mese sono rientrata in Italia per un fine settimana di riposo ed è in quel momento che ho cominciato a stare male".

Giovanna aveva finito di lavorare il giovedì sera e il sabato mattina si era svegliata nell'incubo: dolori fortissimi ovunque e una nausea che non le permetteva neppure di bere. "Muscoli, ossa, articolazioni era come se si rompessero e attorno alla testa avevo una corda che stringeva - racconta l'infermiera - Grossi problemi intestinali, una situazione mai provata prima, così ho chiamato il mio medico di base e, dati i sintomi, lei si è subito allarmata".

Giovanna peggiora rapidamente, arrivano le difficoltà respiratorie, l'astenia e la saturazione si abbassa. Non c'è bisogno d'altro per la dottoressa che la segue e monitora quotidianamente al telefono: è un sospetto caso Covid e così lo segnala all'Ats Insubria. Sono i primi giorni di aprile e in pochissimo i primi sintomi si manifestano anche in suo marito, che subito resta a casa dal lavoro. A ruota si ammalano anche i suoi figli, seppur in forma molto più lieve.

"Mi hanno fatto il sierologico e detto che potevo uscire, senza il tampone"

Malgrado le numerose segnalazioni del medico di base ad Ats Insubria per avere un tampone su questi quattro soggetti sospetti Covid, non è mai arrivata una risposta.

"Io stessa ha chiamato il 1500 per avere risposte, degli esami - racconta l'infermiera - L'operatore mi disse che, visto che lavoravo in una azienda ospedaliera in Svizzera, sarei dovuta andare là a farmi fare il tampone. Dovevo varcare un confine nazionale con un virus in corpo per sapere se ero davvero un malato coronavirus quando non riuscivo neppure ad alzarmi dal letto altrimenti la saturazione scendeva drasticamente?".

Giovanna nelle settimane della malattia ha chiamato decine di volte il numero di Ats Insubria ma nessuno ha mai risposto. "Sono riuscita a fare degli esami (tac ed ematochimici) solo grazie al mio medico di base attraverso un laboratorio - spiega l'infermiera - Alla fine dopo quasi un mese io e mio marito abbiamo cominciato a respirare meglio: l'avevamo sconfitto".

E' all'inizio del mese di maggio che Giovanna viene richiamata da Ats: solo lei (non il resto della sua famiglia) deve effettuare il test sierologico. Si reca nel laboratorio preposto in via Napoleona giovedì scorso (7 maggio).

"Mi hanno chiamato ieri (12 maggio), l'operatrice mi hanno detto che sono negativa e che quindi posso uscire - racconta l'infermiera - Sono rimasta di sasso. Il sierologico cerca gli anticorpi, se non li ho, su quale base posso essere sicura di non essere più infettiva? Così le ho chiesto i risultati specifici dell'esame ma mi è stato risposto che sono dati sensibili e che l'operatrice non era autorizzata a dirmeli. Ma sono i miei esami e non sono neppure inseriti nel fascicolo sanitario elettronico".

Nella stessa giornata Giovanna è stata richiamata da Ats, questa volta lei e suo marito (non i suoi figli) devono effettuare il tampone.

"Siamo andati questa mattina (13 maggio) a farlo, attendiamo di scoprire i risultati - conclude Giovanna che ha molte domande a cui nessuno da risposte sensate - Su quali basi io sono stata scelta per fare il sierologico e il resto della mia famiglia no? Perché a me e mio marito hanno fatto il tampone e ai miei figli no? Se io e mio marito risulteremo negativi e avremo finito la quarantena, i miei figli quando potranno uscire e su che basi?".

Stephanie Barone

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