Infemiera e mamma di tre figlie durante l'emergenza si offrì per il reparto Covid-19
Il Giornale di Erba regala ai lettori di Giornaledicomo.it le più belle storie raccontate nel corso del 2020 sulle pagine del nostro settimanale. Una piacevole lettura sotto l'ombrellone.

Non chiamatela eroe, perché proprio non ci sta: «Per me è semplicemente il lavoro, che ho scelto e che mi piace». Eppure per Fabiola Pilatti, erbese 44enne, sposata e mamma di tre figli, è stata proprio una scelta quella di offrirsi come infermiera in un reparto Covid.
Infemiera e mamma di tre figlie durante l'emergenza si offrì per il reparto Covid-19

«Sono infermiera professionale – ha raccontato – Per 11 anni ho lavorato in Chirurgia a Villa Aprica, a Como, e poi per dieci presso l’Hospice “Il Gelso” di Casa Prina, occupandomi anche di cure palliative a domicilio con l’associazione Ancora. Per alcune problematiche familiari circa tre anni fa mi sono dovuta licenziare perché non potevo più fare i turni e le notti. A malincuore ho lasciato il lavoro, che adoro, tenendo solo i pazienti a domicilio come volontariato». Ma quando a fine febbraio è uscito il bando per emergenza Covid con il quale si cercavano medici e infermieri, lei non ci ha pensato due volte: «Ho risposto subito, credo di essere stata una delle prime e a metà marzo ho iniziato presso il reparto Covid 5 dell’ospedale Manzoni di Lecco».
Una scelta coraggiosa. Non ha avuto paura? Non ha pensato alla sua famiglia? «No, non ho paura e quando ci dicono che siamo degli eroi mi dà quasi fastidio perché è il nostro lavoro. Lo abbiamo scelto e sappiamo quali sono i rischi – sottolinea – La scelta è stata condivisa con mio marito e con i miei tre figli. Mi sostengono e sono rispettosi delle misure di sicurezza». L’infermiera, infatti, mantiene le dovute accortezze per non mettere a rischio la famiglia: «Mio marito e i bambini dormono in un altro spazio della casa: io dormo da sola, uso il mio bagno, con asciugamani diversi e stoviglie diverse – sottolinea – Certo ogni tanto si sente la mancanza degli abbracci, soprattutto con Anita di 9 anni e Pietro di 12, un po’ meno con Davide, che ne ha 16 e non si fa certo abbracciare dalla mamma. Allora quando ne sentiamo forte il desiderio io mi metto la mascherina, mi bardo con le protezioni, do una bella strizzata ai miei figli, poi un bel respiro e si riparte».
I turni in ospedale sono lunghi e pesanti e tutto il giorno si è a contatto con sofferenza e dolore: «E’ vero – ammette – Ci sono momenti difficili, peggioramenti così rapidi che ci lasciano senza fiato e si vede la solitudine di chi non ha accanto le persone amate. Il momento più difficile è stato con un paziente cosciente ma terminale, nel casco C-Pap. Prendendo il cambio della biancheria pulita appena arrivata ho trovato un biglietto scritto dalla moglie per lui. Gli ho letto quel biglietto decine di volte, stringendogli la mano, ripetendolo tutte le volte che lui sembrava essere più cosciente e poi glielo ho appiccicato sulla spondina del letto, in modo che potesse guardarlo tutte le volte che apriva gli occhi. Sapevo che non sarebbe sopravvissuto a lungo e infatti il giorno dopo, tornata per il mio turno, non c’era più». Insomma, le infermiere diventano un po’ l’unica famiglia presente in quel momento: «E che gioia invece quando finalmente escono da quel reparto guariti!».
(Giornale di Erba, sabato 18 aprile 2020)