Blitz della GdF

Indagine "Casa di Carta": sette persone in carcere, altrettante ai domiciliari

Tra le misure anche il sequestro dii beni riconducibili agli indagati per 13,8 milioni di euro quale profitto dei reati contestati.

Indagine "Casa di Carta": sette persone in carcere, altrettante ai domiciliari
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Alle prime luci dell’alba le Fiamme Gialle del Comando provinciale di Como hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Monza su richiesta della Procura della Repubblica nei confronti di 19 persone di cui 7 in carcere, 7 ai domiciliari e 5 sottoposti all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria  nell’ambito dell’indagine denominata “Casa di carta” che ha riguardato un’associazione a delinquere dedita alle frodi ai danni dello Stato.

La "Casa di Carta"

Le indagini, coordinate dal pm  Michele Trianni, hanno avuto inizio nel 2023 a seguito dell’approfondimento di alcune operazioni finanziarie ritenute sospette poste in essere dagli amministratori di una società monzese, già coinvolti in procedimenti penali per condotte fallimentari e truffaldine.

Le investigazioni hanno rivelato come la società fosse effettivamente alla mercè di un vero e proprio sodalizio criminale dedito alla commissione di reati fallimentari, frodi fiscali e truffe che aveva stabilito la propria base operativa in un capannone di Cinisello Balsamo (in provincia di Milano), locato ad una azienda neo costituita attiva nel settore della telefonia e intestata ad un prestanome.

Le osservazioni eseguite presso l’immobile brianzolo hanno consentito  di identificare diversi soggetti e ricostruirne le reti relazionali e di affari, consentendo di individuare alcune società su cui si concentravano le indagini dei finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria di Como.

A quel punto sono state  avviate mirate analisi sui bilanci societari, sui conti correnti nonché attività di intercettazioni telefoniche e presso i luoghi ove si svolgevano gli incontri “d’affari” del sodalizio attraverso cui è stato ricostruito  il modus operandi ideato per ottenere dagli Istituti di credito finanziamenti garantiti dallo Stato attraverso il Fondo di garanzia gestito da Mediocredito Centrale S.p.A.

Gli step della frode

Innanzitutto si procedeva all'individuazione delle società attraverso cui chiedere il finanziamento, privilegiando quelle costituite da qualche anno che non avessero subito dei controlli dal fisco. Si trattava di aziende attive prevalentemente nei settori del commercio all’ingrosso di polimeri, carta, cartone e delle apparecchiature informatiche con sedi fittizie in Milano, Brescia, Bologna e Venezia.

I passaggi successivi riguardavano l'acquisto delle quote attraverso prestanomi di fiducia, in modo da passare sotto il controllo del sodalizio e la falsificazione dei bilanci, grazie all’apporto di un professionista compiacente che alterava i dati contabili e di bilancio facendo figurare una falsa ricapitalizzazione mediante aumenti del capitale sociale del tutto inventati, in modo che l’azienda potesse apparire solida e in grado di restituire il finanziamento che sarebbe stato chiesto alle banche.

Dopo questo maquillage contabile, la società di turno era pronta per presentare la domanda di finanziamento garantito, nella misura dell’80%, all’Istituto di Credito prescelto, con la complicità di un’agenzia finanziaria che lavorava nella città di Brescia in regime monomandatario e che si occupava di istruire la pratica in modo da agevolare la successiva istruttoria della Banca incassando, per questa intermediazione illecita, una percentuale sugli importi erogati.

In questa fase l’Istituto di credito, oltre agli adempimenti burocratici, poteva decidere di inviare presso le sedi aziendali propri funzionari per effettuare anche sopralluoghi e ispezioni. In tali casi, il sodalizio organizzava vere e proprie messe in scena provvedendo, ad esempio, a tinteggiare il cancello del capannone affittato per l’occasione, posizionarvi una targa con il nome, portare sul posto dei macchinari e arruolare falsi operai da presentare quali dipendenti dell’azienda. Il capo del sodalizio e il suo braccio destro definivano questa attività di falsa rappresentazione quale vero e proprio “cinema” da creare a beneficio degli eventuali funzionari ispettori.

All’esito dell’istruttoria la pratica di finanziamento veniva presentata dalla Banca a Mediocredito Centrale S.p.A. che deliberava l’ammissione alla garanzia pubblica, consentendo così all’Istituto di credito l’erogazione della somma richiesta, accreditandola sui conti correnti delle società in mano al sodalizio.

Immediatamente dopo l’accredito, la provvista ottenuta veniva impiegata in minima parte per pagare i costi “fissi” (ad esempio le rate di precedenti finanziamenti erogati ad altre società fantoccio che bisognava onorare per non far saltare anzitempo le truffe in corso, sulla falsa riga dello schema Ponzi), mentre la maggior parte era spesa per esigenze personali (quali l’acquisto di autovetture di grossa cilindrata e camper) o drenata con varie modalità.

Il denaro

In particolare, il denaro era prelevato in contanti e movimentato a mezzo di “spalloni” oppure bonificato sui conti correnti intestati ai sodali o ai loro prestanomi, a società italiane (prevalentemente ditte cinesi ma con conti in Danimarca, Belgio e Germania riconducibili agli associati) ed estere (ubicate in Repubblica Ceca) a pagamento di operazioni commerciali simulate, coperte da false fatture.

Svuotando i conti correnti sociali, capitava che non ci fosse liquidità sufficiente per pagare alla Banca neppure le prime rate del prestito. Così, per prendere tempo e ottenere una moratoria sui pagamenti, il capo del sodalizio istruiva i suoi prestanome in vista del colloquio con i funzionari bancari, simulando situazioni di difficoltà finanziaria. In un caso, prima di entrare in Banca, il capo dettava alla sua testa di legno la linea da tenere con l’impiegato, al quale sarebbe stato raccontato che i mancati pagamenti delle rate erano da addebitarsi ad inadempienze dei fornitori dovute ai disagi creati dall’alluvione nel Modenese del 2023.

Nel corso delle indagini la Procura della Repubblica di Monza attuava un’efficace coordinamento investigativo con la Procura della Repubblica di Brescia, favorendo una proficua sinergia operativa tra il Nucleo PEF Como e quello di Brescia che stava procedendo, su un filone parallelo, nei confronti del medesimo agente finanziario operante in quel capoluogo.

Le misure

Al termine delle investigazioni il  Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Monza, su richiesta della locale Procura della Repubblica, ha disposto  l’esecuzione di misure cautelari personali nei confronti di 19 soggetti ritenuti responsabili, in concorso, dei reati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, riciclaggio  e autoriciclaggio, con l’aggravante prevista per i reati transnazionali, il sequestro preventivo diretto e per equivalente dei beni riconducibili agli indagati fino a concorrenza di 13,8 milioni di euro quale profitto dei reati contestati.

 

 

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