Fuori provincia

«Il Covid, è uno tsunami: noi, le sole persone vicine ai malati»

Tamara Sgubin, infermiera all’Humanitas.

«Il Covid, è uno tsunami: noi, le sole persone vicine ai malati»
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«Il Covid, è uno tsunami: noi, le sole persone vicine ai malati». Il racconto di Tamara Sgubin, infermiera di Saluggia dipendente dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

«Il Covid, è uno tsunami»

Tamara Sgubin è un’infermiera di Saluggia che lavora in sala operatoria dal 1993 e dal 2004 è dipendente dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano.

«Lunedì 24 febbraio è stato l’ultimo giorno che il mio blocco operatorio è rimasto aperto, da quel giorno siamo stati investiti dallo tsunami Covid – racconta Tamara – Sale operatorie chiuse, tranne 3 per le urgenze. Le altre sono state convertite in posti di terapia intensiva (oggi sono ormai 35 posti) e tutte le degenze, man mano che si svuotavano, diventavano reparto Covid. Così dal 10 marzo Humanitas diventa uno dei centri di riferimento per l’emergenza nel Milanese. Tutti gli infermieri, Oss e medici sono stati spostati e utilizzati per questo scopo».

Il suo “nuovo” lavoro

Tamara Sgubin racconta:

«Io sono stata assegnata ad un reparto di 40 posti, tutti positivi, nel quale lavoriamo su turni di 6 ore perché 8 non era possibile visto che durante questo lasso di tempo non possiamo bere, soffiarci il naso, grattarci i capelli e fare pipì. Quindi almeno due ore prima del turno si smette di bere. Non ci cambiamo perché i presidi che ci servono per entrare in turno sono pochi e se tutti si cambiano per andare in bagno, bere il caffè e fumare non sarebbero sufficienti. Abbiamo una tuta, una maschera FFP2 (le FFP3 dopo 5 o 6 giorni non le abbiamo più avute), degli occhiali di plastica e la visiera, ovviamente bardati così non ci riconosciamo neppure tra di noi per cui a inizio turno ci scriviamo sulle tute il nome e la qualifica con un pennarello. È dura essere catapultati in una realtà che non è la tua e in una situazione così tragica dov’è non c’è tempo per imparare ma devi essere subito pronta a dare il massimo. Pazienti per la maggior parte anziani, ma purtroppo anche giovani, soli, demoralizzati e gravi, che hanno grossissime difficoltà respiratorie. A 50 anni hai un rapporto diverso con la morte, la vivi diversamente e ti coinvolge umanamente. E’ bruttissimo, vedi questi pazienti che si spengono e non puoi fare nulla che non accompagnarli degnamente alla morte. Soli, senza la mano di un parente che gli possa dare un po’ di sollievo, è triste. Sono state montate due tende militari accanto alle camere mortuarie per mettere le salme, non c’è più posto. In compenso Humanitas ha fatto veramente tanto per il personale e per i pazienti: ha dotato il personale di tablet così che girando per i reparti i pazienti possano videochiamare i familiari e salutarli. Ha prenotato un residence per i pazienti che, dimessi, hanno bisogno di fare riabilitazione o non possono rientrare in famiglia per 15 giorni per problemi di contagio. Per il personale ha creato un’assistenza psicologica come supporto, la mensa rimane aperta dalle 5.30 all’1 di notte tutti i giorni per dare la possibilità a tutti i turnisti di poter mangiare il cibo che tutti gli artigiani, le aziende, le pizzerie e i cittadini normali portano in struttura per aiutarci. Tutti i supermercati hanno dato la possibilità agli infermieri di fare la spesa senza dover fare la coda mostrando il badge. Tutta la comunità e la struttura stessa si sono dimostrati vicino al personale. Anche se ci siamo trovati a lavorare con colleghi nuovi, giovani, mai visti, c’è stata fin da subito una meravigliosa collaborazione e sintonia. Quando finisci la notte e come me, torni a casa guidando per 120 chilometri, ovvio che il pensiero è “A differenza dei primi di marzo sembra che i ricoveri si stiano stabilizzando, speriamo! Non bisogna però abbassare la guardia e restiamo tutti in casa, è la cosa più importante!”. Ma la paura più grande è quella di portare a casa il virus e di trasmetterlo ai nostri cari».

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